Uso e contemplazione

Uso e Contemplazione, Octavio Paz 1973

octavio-pazL‘artigianato fa parte di un mondo che precede la separazione fra l’utile e il bello. Questa separazione è più vicina a noi di quel che normalmente si crede. Molti degli artefatti che sono ospitati in musei e collezioni private, in precedenza erano stati parte di quel mondo in cui la bellezza non era un valore isolato ed autonomo. […] 
È forse superfluo ripetere che l’arte non è un concetto: l’arte è una cosa dei sensi.
 La sovrapproduzione di oggetti sempre più perfetti ed uguali è la precisa controparte della consacrazione dell’opera d’arte come oggetto unico. […] La bellezza del design industriale è di natura concettuale: se esprime qualcosa, è la precisa accuratezza di una formula. È il segno di una funzione. La sua razionalità lo confina ad una e solo ad una alternativa: o funziona o non funziona. Nel secondo caso finisce in discarica.
Non è solo la sua utilità che rende un pezzo d’artigianato così interessante. Questo dipende anche da una complicità intima con i nostri sensi ed è per questo che è così difficile disfarsene. È come buttare via un vecchio amico.

[…] Un punto oscuro nella sensibilità moderna: la nostra incapacità di interrelare bellezza e utilità. Due ostacoli ingombrano la strada. La religione dell’arte ci vieta di guardare l’utile come bello; l’adorazione per l’utilità ci fa pensare alla bellezza non come presenza, ma come funzione. […]
L’artigianato è una mediazione tra le due posizioni: le sue forme non sono determinate dal principio dell’efficienza ma da quello del piacere, che è sempre uno spreco, e per cui non ci sono regole. […] Nei lavori di artigianato c’è un continuo slittare avanti e indietro tra utilità e bellezza. Questo scambio continuo ha un nome: piacere. Le cose piacciono perché sono utili e belle. […] I lavori d’artigianato soddisfano un bisogno non meno imperativo di fame e sete: il bisogno di godere, di deliziarci delle cose che vediamo e tocchiamo, quale che possa essere il loro uso quotidiano. Questo bisogno non è riducibile né all’ideale matematico che è la norma del design industriale né ai riti esclusivi della religione dell’arte. Il piacere che dà l’artigianato è una doppia trasgressione: contro il culto dell’utilità e contro il culto dell’arte.

[…]
 Fatto dalla mano dell’uomo, il pezzo d’artigianato conserva l’impronta – concreta o metaforica – del suo costruttore. Questa impronta non è la firma dell’artista. Non è neanche un marchio di fabbrica. Piuttosto è un segno: una cicatrice poco visibile, sbiadita, che ci ricorda la fratellanza originale degli esseri umani e la loro separazione. Fatto dalla mano dell’uomo, il pezzo d’artigianato è fatto per la mano dell’uomo: possiamo non solo guardarlo ma carezzarlo con le nostre dita. Noi guardiamo un’opera d’arte ma non la tocchiamo. […] La nostra relazione con l’oggetto industriale è funzionale; con l’oggetto d’arte, semi-religiosa, con l’oggetto d’artigianato, corporale. Quest’ultima nei fatti non è una relazione ma un contatto. La natura transpersonale di un pezzo d’artigianato è espressa direttamente e immediatamente, in sensazioni: il corpo è partecipazione. […]
Il pezzo fatto a mano è un segno che esprime la società umana in un modo che gli è proprio: non come lavoro (tecnologia), non come simbolo (arte, religione), ma come vita fisica condivisa.

[…]
 Nei tempi andati, l’artista voleva essere come i suoi maestri, mostrarsi degno di loro copiandoli ed imitandoli. L’artista moderno vuol essere differente, ed il suo omaggio alla tradizione prende la forma di un rifiuto. […] L’estetica del cambiamento continuo chiede che ogni oggetto sia nuovo, […] la tradizione diventa così una serie di rotture. La ricerca frenetica del cambiamento governa anche la produzione industriale, anche se per differenti ragioni: ogni nuovo oggetto […] spinge fuori mercato l’oggetto che lo precedeva immediatamente. La storia dell’artigianato, invece, non è una successione di nuove invenzioni […]. Non ci sono rotture, piuttosto continuità, fra passato e presente. L’artista moderno ha deciso di conquistare l’eternità, il designer di conquistare il futuro; l’artigiano si fa conquistare dal tempo. Tradizionale ma non storico, connesso intimamente al passato ma non databile con precisione, l’oggetto d’artigianato rifiuta i miraggi della storia e le illusioni del futuro. L’artigiano non cerca una vittoria sul tempo, ma di immedesimarsi col suo fluire. Trasformando la ripetizione in forma di variazioni ad un tempo impercettibili e genuine, i suoi lavori diventano parte di una tradizione durevole. E così facendo resistono molto più a lungo di oggetti recenti che sono “l’ultima novità”. […] L‘artigianato, di nuovo, si mantiene fra due poli: come il design industriale è anonimo; come l’opera d’arte, è uno stile. Confrontato ai prodotti del design, il pezzo d’artigianato è anonimo ma non impersonale; confrontato all’opera d’arte, sottolinea la natura collettiva dello stile e dimostra che l’orgoglioso Io dell’artista è un noi.
 Diffusa in ogni angolo del mondo, la tecnologia è diventata la principale causa di entropia storica. Le sue conseguenze negative si possono riassumere un una frase: impone l’uniformità senza promuovere l’unità. Spiana le differenze fra culture e stili regionali distinti ma non sa eliminare le rivalità tra i popoli. Per di più, il pericolo della tecnologia non consiste solo nella potenza mortale di molte delle sue invenzioni, ma nel fatto che costituisce un grave pericolo per l’essenza stessa del processo storico. Trascurando la diversità di società e culture, trascura la storia stessa. 
La stupenda varietà di differenti culture è la vera sorgente della storia: incontri e congiunzioni di gruppi e culture dissimili, con idee e tecniche molto diverse.
 La tecnologia moderna ha portato numerose e profonde trasformazioni. Tutte, comunque, con lo stesso obiettivo e la stessa importanza: l’eliminazione dell’altro.

 L‘artigianato, invece, non è neanche nazionale, è locale. Indifferente ai confini e ai sistemi di governo, è sopravvissuto a repubbliche ed imperi: l’arte della ceramica, i cesti intrecciati e gli strumenti musicali dipinti negli affreschi di Bonampak sono sopravvissuti ai sacerdoti Maya, ai guerrieri Aztechi, ai preti Spagnoli e ai presidenti Messicani. Queste arti sopravviveranno anche ai turisti Yankee.
 Gli artigiani ci difendono dall’uniformità artificiale della tecnologia e dai suoi deserti geometrici: mantenendo le differenze, mantengono la fecondità della storia.
 L’artigiano non definisce se stesso in termini di nazionalità o di religione. Non è fedele a un’idea, né a un’immagine, ma a una disciplina pratica: la sua arte. Il suo laboratorio è un microcosmo sociale governato dalle sue leggi speciali. Il suo orario di lavoro non è stabilito dall’orologio, ma da un ritmo che ha più a che fare con il corpo e le sue sensibilità che con le necessità astratte della produzione. Mentre lavora, può parlare con gli altri e può anche mettersi a cantare. Il suo boss non è un invisibile direttore, ma un uomo più anziano che è il suo rispettato maestro e che spesso è un parente, o almeno un conoscente.

 Per le sue dimensioni fisiche e il numero di persone che ne fanno parte, una comunità artigiana favorisce modi democratici di vita comune; la sua organizzazione è gerarchica ma non autoritaria, la gerarchia essendo basata non sul potere ma sul grado di competenza: maestri, lavoranti e apprendisti; e infine, l’artigianato è un lavoro che dà spazio a deviazioni spensierate e alla creatività. Dopo averci insegnato qualcosa sulla sensibilità e sul libero gioco dell’immaginazione, l’artigianato ci dà anche una lezione sull’organizzazione sociale. 
Le burocrazie sono i nemici naturali dell’artigiano, e ogni volta che cercano di “guidarlo”, corrompono la sua sensibilità, mutilano la sua immaginazione e degradano il suo lavoro. 
Il destino dell’opera d’arte è l’eternità ad aria condizionata del museo; il destino dell’oggetto industriale è la discarica. Il pezzo d’artigianato di solito scampa il museo e le sue vetrine, e quando gli succede di finirci, se la cava con onore. É un esempio prigioniero, non un idolo.
 L’oscena indistruttibilità della spazzatura non è meno patetica della falsa eternità del museo.
L’oggetto fatto a mano non vuole durare millenni ma non possiede una tendenza spiccata verso una morte prematura. Segue il consueto trascorrere dei giorni, viene trascinato con noi dalla corrente che ci trasporta, si consuma poco alla volta, non cerca la morte né la nega: la accetta.

Fra il tempo immobile del museo e il tempo frenetico della tecnologia, il cuore dell’artigianato batte a ritmi umani. Una cosa fatta a mano è utile ma è anche bella; è un oggetto che dura a lungo ma anche un oggetto che invecchia lentamente e che è rassegnato a questo; un oggetto che non è unico nel senso in cui lo è un ‘opera d’arte e che può essere sostituito da un altro oggetto che è simile ma non identico. Gli oggetti fatti a mano c’insegnano a morire e così c’insegnano a vivere.

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